Oggi appuntamento con il Club del Libro “Su in collina e… la crostata al bicarbonato” per parlare dell’ultimo libro di Alessandro D’Avenia “L’Appello”.
L’ Appello, solitamente associato alla pratica di chiamare i nomi di ciascun alunno all’inizio della lezione, nel romanzo diventa un metodo per comunicare, per raccontare, per ascoltare, per conoscere i segreti più intimi degli studenti di una classe affidata al professore Omero Romeo.
L’appello è anche un modo per ricordare a se stessi e agli altri che si sta al mondo e come e di cosa (ma anche perché) si sopravvive. Nomen Omen: il destino è nel nome. Al quarantacinquenne professore di scienze viene affidata una classe definita “difficile”, decimata – come ci dice lo stesso scrittore – “decimata in senso letterale”, essendo rimasti solo in dieci alunni problematici: ragazzi con vite difficili, ognuno con una vita diversa da raccontare. Il professore Omero è un uomo sorprendente dalla personalità brillante, spiritosa, autoironica, che quando diventa cieco deve riprogrammare repentinamente la propria vita e sensorialità : “Quel che è certo è che da quando sono diventato cieco la mia vita è diventata epica […] un’occupazione a tempo pieno, senza pause. […] Vivo allo scoperto e la vita mi sbatte in faccia come il vento: una bella giornata non è più una giornata di luce, ma di vento sulla pelle, nelle orecchie e nelle narici, perché il vento racconta”
Il tema dominante è l’empatia, poco presente nelle relazioni umane soprattutto a scuola, dove si è più preoccupati di cosa insegnare e imparare rispetto ai ragazzi e alle loro esperienze. Sembra che spesso manchi l’umanità…
“Tutti dalla mattina alla sera lottiamo perché il nostro nome venga pronunciato come si deve. Lo cerchiamo dappertutto, in un posto di lavoro, in una relazione, in una notizia, in un vestito, in un record, in una passione, in una perversione, nella violenza, nell’ambizione, nella dipendenza e nella distruzione, nel dominio e nel piacere, in una tomba e nella scelta di qualcosa o qualcuno a cui appartenere; perché questo è avere un nome: avere qualcosa o qualcuno che lo tenga al sicuro.”
E’ un romanzo di formazione, imperdibile per genitori e adolescenti!
INCIPIT
La vita va da quando decidono che nome darti a quando quello stesso nome è solo un graffio su una lapide. Nell’uno e nell’altro caso non hai l’iniziativa, quelle lettere sono tutto ciò che hai per venire alla luce e provare a rimanerci. Forse per questo gli antichi dicevano che il destino è nel nome: che ti piaccia o no, sei chiamato a rispondere all’appello. Nel mio caso è così: mi chiamo Omero, in greco “colui che non vede”… e cinque anni fa sono diventato cieco. Omero Romeo a dirla tutta, 45 anni, DNA per metà di padre professore universitario di astrofisica, appassionato di musica classica e di sua moglie, iniziato al mistero della vita e precipitato ora in quello della demenza senile; per l’altra metà di madre professoressa di greco e latino, appassionata di Omero (il mio nome lo ha scelto lei, mio padre aveva proposto un più semplice Alberto, in onore di Einstein) e di enigmistica ( il mio nome è anche l’anagramma del mio cognome). Ho cercato di mescolare alla meglio questo eccessivo patri-matri-monio genetico con risultati in corso di verifica. Laureato in chimica, fede certa nella tavola periodica e nel mistero, appassionato del cosmo e di Dio, sedotto ogni giorno da mia moglie e allenato all’esistenza da due figli, amico immaginario di Einstein e nuovo insegnante di scienze di una classe abbandonata dalla professoressa precedente per morte repentina, occorsa il 2 settembre. La forza di gravità l’ha richiamata con violenza sulle scale di casa a motivo dell’attrito esercitato sul suo piede dall’unico affetto che le era rimasto, un gatto raccolto per strada, ironia della sorte o della morte, e dimostrazione di ciò che ho sempre pensato: i gatti, oltre a dormire 16 ore al giorno, sono animali senza scrupoli. L’unico che io abbia mai amato è il gatto del paradosso di Schrödinger, vivo e morto nello stesso istante. Sono quindi diventato all’improvviso il direttore di un’orchestra che caos e probabilità con studiata ironia hanno messo insieme. Ma se è vero che tutte le classi felici sono simili fra loro, è ancor più vero che ogni classe infelice è infelice a modo suo. La quinta che ho ereditato proprio nell’anno in cui mi sono deciso a riprendere l’insegnamento da quando ho perso del tutto la vista canta una infelicità corale, a cui ciascuno partecipa con un timbro inconfondibile. Ne scaturisce una sofferenza polifonica, in cui ogni dolore si collega a un altro, lo arricchisce, per affinità, o lo esalta, per contrappunto, con inattesa armonia. Se di una sinfonia si ascolta la partitura di un singolo strumento può sembrare persino stonato, eppure quella linea musicale è necessaria all’insieme. Decimati in senso letterale – sono rimasti in dieci – dalle intemperie della scuola, ma più ancora da quelle della vita, non li hanno ridistribuiti, perché la loro peste avrebbe contagiato altri: conveniva tenerli isolati e aspettare che l’infelicità si autodistruggesse. Proprio loro sono capitati a me, che avevo smesso di insegnare da cinque anni, e mi sono reso di nuovo disponibile: ho bisogno di sapere se sono ancora vivo. Einstein ha detto che Dio non gioca a dadi con l’universo, ma il supplente cieco mi sembra proprio un brutto tiro: precario nell’anima e nel corpo, fa da guida a precari del corpo e dell’anima. O è una commedia o è una tragedia, non ci sono vie di mezzo. Oppure semplicemente è la prima puntata di Lost .
D’Avenia, Alessandro, L’appello, MONDADORI. Edizione del Kindle